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Andrea Zarroli
La luce del mondo


Quel giorno nella grande città il sole non era mai sorto, come se a nessuno interessasse granché vederlo. Aveva descritto la sua malinconica parabola nel cielo, costantemente eclissato dietro un sipario di nuvole e smog.
Al chiuso degli uffici, nelle banche, ai piani alti dei palazzi, alla luce bianca dei neon uomini e donne di origini, gusti ed età diverse, si erano affaccendati al solo scopo di far denaro. Nei garage interrati, nelle officine, nei bar, nei negozi, dalla mattina alla sera soltanto questo: far denaro. Poco o tanto che fosse. Per arricchirsi o sopravvivere. Ma ormai Lara sapeva che la Vita, quella con la maiuscola, era un’altra…

Val di Cornia, Toscana

Si erano fermati a mezza costa del promontorio che si ergeva alle spalle del bosco di sughere e roverelle che avevano appena attraversato. In due, stavano tracciando un sentiero per conto di un agriturismo che dalla primavera in poi offriva percorsi naturalistici ai suoi ospiti, per lo più tedeschi e austriaci ammaliati dal sussurro del Mediterraneo.
Era marzo, ma sembrava già estate. Il sole del pomeriggio splendeva limpido e forte sopra il mare di fronte a loro. Dario era appoggiato con le spalle al tronco di una pianta. Gli occhi chiusi controluce, un filo d’erba all’angolo della bocca. Moro, il viso quadrato cosparso di barba, se ne stava sdraiato con l’aria pacifica e beata di chi per carattere non prende mai nulla troppo sul serio. A osservarlo così si sarebbe detto che il parente prossimo dell’essere umano, nel regno animale, non fosse affatto lo scimpanzé bensì l’orso bruno.
Le verdi asparagine, che sbucavano ovunque ai lati del sentiero, nascondevano il segreto amaro e delizioso dell’asparago selvatico. Venendo su, Dario ne aveva raccolti parecchi: un bel mazzetto di asparagi scuri che adesso sporgevano a ciuffo dalla tasca laterale del suo zaino. Ottimi da cucinare, sottili e prelibati. Perfetti per insaporire una frittata o un risotto.
Martino, il suo compagno di lavoro, si stava dando da fare con maggiore solerzia. Aveva liberato lo stretto sentiero dalle pietre e dagli arbusti che lo ingombravano e segnato di vernice rossa il fusto liscio di un orniello come indicazione per gli escursionisti.
Raggiunto il suo amico, si guardò indietro al di sopra della spalla. Le mani sui fianchi, la fronte lucida di sudore. “Se ti sei riposato,” disse, “io andrei avanti.” Avevano ventiquattr’anni e si conoscevano fin da bambini.
L’altro aprì un occhio solo e lo scrutò dal basso in su. Poi lo richiuse. Intrecciò le mani dietro la nuca e accavallò le gambe.
“Che fretta hai?”
Con la punta della scarpa Martino smosse avanti e indietro la polvere che salì evanescente dal terreno secco.
“Bó” rispose vago. “Mi va di andare.”
Da terra, Dario gli fece cenno di aspettare. Con calma allungò la mano fino allo zaino e se lo trascinò accanto. Ne estrasse una bottiglia di vino. Martino ne riconobbe l’etichetta, inconfondibile da quelle parti, con l’immagine di una muta di segugi stretti ai fianchi di un cinghiale in fuga. Uno dei migliori rossi del territorio. Dario si passò la mano sul mento barbuto. Sorrise sornione, scoprendo gli incisivi in mezzo ai quali sarebbe passata facilmente una lenza da pesca del cento, e disse:
“L’ultimo lavoro me l’hanno pagato con due casse di questo.”
“Te l’hanno pagato bene” commentò Martino prendendo il bicchiere di plastica che l’altro gli porgeva, colmo di vino fino all’orlo.
“Salute compañero!”
Martino fece un ghigno strano: “Salud” disse sovrappensiero, e spinse lo sguardo lontano, in fondo all’orizzonte marino, là dove tutto oscillava.
Con la sua franchezza un tantino incivile, poiché erano amici da sempre, Dario gli disse: “Non riesci proprio a levartela dalla testa, eh?”
“Chi?” deviò lui, senza guardarlo.
“La tipa di Milano.”
Martino tacque. Indugiò con lo sguardo sul mare, una tavola di luce il cui azzurro sfocava verso le isole dell’arcipelago, come se il mare potesse rispondere di tutto. L’aria era mite, mossa appena dal maestrale come una carezza salata.
Martino era di bell’aspetto, aveva fascino ed era un tipo allegro. Ondulati capelli castani, occhi verdi. D’estate faceva il bagnino in uno stabilimento balneare di Donoratico, poco più a sud. Mai avuto problemi con le ragazze. Invece stavolta…
“M’incaglio…” rispose Martino dopo un po’, quando l’altro non s’aspettava più risposta. “Ogni volta che ci provo m’incaglio.”
Dario sospirò. Inghiottì il vino fino all’ultima goccia, schioccò la lingua e si leccò le labbra. Nei suoi occhi brillò uno sguardo lontano mentre tornava a riempirsi il bicchiere. “Troppo sofisticata” la buttò lì. “Abituata ad altro. Quelle come lei, vedi, non si legano a te per qualche bacio dato bene. Non si accontentano di questo…” descrisse un ampio cenno con la mano e ai loro occhi salirono le verdi tonalità del piano, le fronde argentee degli ulivi, le macchie di pini rasenti le vigne, le rotondità dei poggi e i poderi, così fino all’estesa bellezza del Tirreno, e su tutto ciò la luce che variava secondo un lento movimento di nuvole bianche e bugiarde, che non recavano pioggia. Nell’aria un odor di rosmarino. Questo e null’altro se non il tenue cinguettio degli uccelli della macchia. Finché Dario non ruppe il silenzio e con sorprendente acutezza disse:
“Un cristallo che riflette splendidamente tutto e non trattiene nulla. Ecco cosa penso di lei, se ci tieni a saperlo. Mentre io e te... be’... tutto ciò di cui abbiamo bisogno noi è acqua d’estate e fuoco d’inverno.”
“Mi sono innamorato” tagliò corto Martino.
L’altro non disse nulla.
“Capito?”
“No” rispose Dario con un violento sternuto.
Martino lo guardò perplesso.
“Cioè capire ho capito…” si riprese Dario asciugandosi le labbra col dorso della mano irsuta, “ma non mi sembra una grande idea.”
Nonostante l’umore greve, Martino sorrise.
“È bello confidarsi con te, sai? È come applaudire con una mano sola.”
Giunse dall’alto il latrato di un gabbiano, più simile al verso di un cane che di un uccello. Martino alzò gli occhi e si voltò. Il cielo alle sue spalle era di un azzurro assolutamente puro, che il verde scuro dei cespugli e degli alberi rendeva ancor più luminoso.
Dario aveva steso un braccio e si grattava sotto l’ascella.
“E comunque... l’hai fatta andare via così? … Senza…?”
Martino si strinse nelle spalle. “Non così e basta…”
“No?”
“Le ho lasciato una lettera.”
Dario lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. “Ah, una lettera…”
“Già, una lettera” si spazientì Martino. “Hai presente cos’è una lettera, no?”
“Come no...” sospirò Dario. “Dunque hai imparato a scrivere?”
Martino aprì bocca per reagire, ma Dario lo anticipò.
“Sembrava una giornata come tante altre” disse con lo sguardo perso nel vuoto, “e invece…”
Martino lo guardava malissimo. “Invece cosa?”
Intorno a loro la natura era immobile, solidale e fraterna, partecipe come un invisibile pubblico di ninfe e fauni in attesa dell’epilogo di quella breve, insperata commedia.
L’amico gli sorrise da terra, col sedere nella polvere. “Martino che s’innamora…” disse con pronunciato stupore, con un falso ghigno da ebete. “Martino che scrive una lettera…” e nei suoi occhi passò un lampo irridente.
L’altro gli batté sulla spalla e tirò dritto.
“Ci vediamo” disse secco.
“… E dai, che scherzo!”

Ottavo, nono, decimo piano. L’ascensore che si ferma, lei che scende. Le chiavi in fondo alla borsa. Luce elettrica: un monolocale. Lara toglie le scarpe col tacco, finalmente. Collant neri.
I piedi le dolgono. Mal di testa. Sbottona il tajer grigio dal taglio severo, la gonna che le cade ai piedi, e ne esce come da una trappola.
Fuori è buio. Non ha senso tirar su gli avvolgibili alle finestre. Va in bagno. Si lava il viso, le mani. Toglie la biancheria e indossa una vestaglia stampata a farfalle le cui ali sono piene di quei colori che per tutto il giorno le sono mancati… Mette una goccia di collirio negli occhi arrossati. Si guarda allo specchio. Atteggia le labbra a un sorriso forzato e l’immagine nello specchio, che a sua volta sorride, esprime domande e la guarda come sapesse più di quanto non sappia lei.
Attraversa scalza il breve spazio che la separa dal cucinotto. Mette al fuoco un pentolino d’acqua per un infuso di thè verde e si appoggia con entrambe le mani al piano dei fornelli.
Chiude gli occhi, sbadiglia. Ma non è stanchezza, la sua, né sonno. Piuttosto il risultato di sei ore davanti a un videoterminale, di altre due di riunione in un’asettica stanza bianca e grigia a inseguire la vuota aggressività di parole come videoconference, budget, fee, best practices, gross profit, margine percentuale, competitors, quote di mercato… a fingersi coinvolta, partecipe, interessata al risultato economico di questo o quel progetto, a sopportare voci sgradevoli, frasi ciniche che vorrebbero passare per ironiche, sparate autocelebrative, volgarità gratuite. Così un giorno dietro l’altro. Per mesi. Forse per anni...
Dopo essere stata travolta ancora una volta dalla tempesta del nulla, ora Lara si avvicina al letto con in mano la tazza fumante. Si appoggia al cuscino, rannicchia le gambe. Sorseggia il thè che le trasmette un po’ di calore. Allunga una mano e con le fragili dita dalle unghie curate, decorate di smalto rosso, apre il cassetto del comodino e ne estrae un foglio. Una lettera scritta a mano da colui con il quale ha trascorso gli ultimi tredici mesi della sua vita lontana da Milano, in un luogo completamente diverso, nella casa bassa e imbiancata di calce al limitare dell’uliveto dove al mattino presto, dalla finestra, vedevano spesso i daini brucare tra le fronde più basse degli ulivi.
Gli occhi di Lara si posano sulla calligrafia di Martino e come d’incanto appaiono le parole. Non più vuote, impersonali e fredde come quelle che ha dovuto affrontare per l’intera giornata. Ma colme di significato e vere...


“Dovunque tu sia, non dimenticare il profumo della duna e dei ginepri, lo scanzonato maestrale che entrava fischiettando da nordovest, rallegrava i pomeriggi coprendo il mare di brevi schiume e calava al tramonto promettendo limpide notti estive. Notti di costellazioni e pesci, quando rinunciando al sonno affidavamo alla marea lenze armate di esche morbide, vermi di rena o teneri cannolicchi, e restavamo in ascolto della blanda risacca a osservare le stelle senza conoscerne i nomi. Cercavamo la felicità nel semplice sciabordio delle onde. Intorno a noi le spine stellate dei cardi e il profumo incantato dei gigli della sabbia.Talvolta era la mormora a far ondeggiare il vettino di una canna al chiaro di luna, a interrompere la delicata astronomia dei nostri baci, oppure l’ombrina dalle carni pregiate o l’orata.
Se sarai stanca, riporta la mente al gentile riflesso di onda lunga che accompagnava certe mattine d’estate, o a quel che provavi al frinire intenso delle cicale all’ombra delle pinete, quando l’aria vibrava come una chitarra, o venendo via dalla spiaggia nella semiluce della sera, con la pelle salata, attraverso i lentischi e i ginepri dove la risacca taceva e il salmastro si perdeva nel fresco diadema delle linfe.
Ricorda tutto il vento che avevi nei capelli nei giorni di scirocco, a settembre, a ottobre, col mare trasparente e grigio piegato dalla spinta laterale del vento e in acqua le lenze robuste e i grossi ami d’acciaio brunito innescati a sardina per tentare la vena predatrice dei pesci serra, lunghi fino a un metro e forti, che una volta allamati saltavano indomiti fino al gradino di risacca, la canna piegata in due e infine il pescecome un lampo bagnato fra le onde... Quell’odore struggente di sale, la spiaggia deserta, il sole divorato dalle nubi che continuavano a montare da sudest tingendosi di viola e di rosso, i tramonti infuocati dai quali uscivano stridenti gabbiani come se fuggissero da un grande incendio al margine estremo della terra.Il sapore del pesce pescato di giorno e cucinato la sera, sapido di mare, aspro di limone come l’amore giovane.
Rammenta ciò che il respiro del novembre faceva ai boschi di querce della Magona, quel tramutare le foglie in oro che non era soltanto un colore ma un chiarore, quasi che le foglie cogliessero la luce del sole autunnale e la restituissero lentamente. Odore di legna nell’aria immobile, cielo bianco, filari di viti rosseggianti. Finché il vento non rinforzava dai quadranti occidentali e per tre quattro giorni il libeccio o il ponente non facevano la voce grossa spazzando la costa, facendo infuriare il mare, innescando temporali. Le grandi piogge, preludio dell’inverno. Noi due abbracciati dietro il vetro nascosto a osservare la coda del diluvio... raffiche di vento che nella loro corsa sollevavano lunghe linee bianche come folletti che si tenessero per mano attraverso l’erba.
Ricorda il limpido orizzonte marino nei freddi giorni di tramontana, quando ti sembrava di poter toccare le isole tanto apparivano nitidi i loro profili come azzurre montagne cullate dal mare. Quando inaspettata venne la neve a porre sulla terra il sigillo del silenzio, e tu sorridevi perché un pettirosso macchiato d’arance indugiava sul davanzale della nostra finestra beccando briciole di pane e ringraziandoti con un filo di canto.
Mentre il gelo assediava i campi, ce ne andavamo a letto con Isole nella corrente di Hemingway e io mi perdevo nelle tue tenere acque. Dopo l’amore mi addormentavo in pace con il mondo, respirando fra i tuoi capelli che odoravano di miele scuro e spezie.
Marzo, aprile...
i cespugli di biancospino, il verde sorriso delle viti. La polvere rossa e gessosa sollevata dal trattore in mezzo alle vigne macchiava il cielo, vagamente simile a un tramonto color ocra. Pane abbrustolito, olio giovane, aglio, pepe, sale... Del vino, sentirne il messaggio.
Se ti troverai a camminare fra gente inflessibile, invasa dalla nebbia del disprezzo, ricorda loro che tutto ciò che è vivo si piega perché tende alla terra.Conserva in te la gioia di quando libera camminavi nei boschi di lecci, di ontani e roverelle, con i pollici infilati nelle cinghie di uno zainolungo piste battute solo dai cinghiali e dai caprioli, o a cielo aperto fra tappeti di grano, papaveri e fiordalisi, sotto gli allegri volteggi delle rondini, avanti fino alla sommità dei poggi dove si respirava un odore celeste, l’odore del cielo.
Ovunque sarai, io ti rivedrò sempre così, in piedi sulla soglia di casa col tuo pullover di cachemire a maniche lunghe e le gambe nude, di profilo, rivolta verso i colli che cominciavano a stagliarsi contro il cielo perché dietro di essi stava sorgendo la luna. O seduta sul nostro letto con le braccia intorno alle ginocchia, avvolta in una coperta. Silenziosa.
Aspetterò che tornino i tuoi occhi turbati,gli stessi dell’ultima notte trascorsa insieme, umida e mite, notte di gemme e radici in cui tutto cresceva, anche i tuoi dubbi... sebbene dal vetro spalancato della camera ci giungesse il tintinnare dei grilli insieme a un lontano dialogo di usignoli, mentre al chiarore della luna le gatte si leccavano il pelo in uno stato di dolce innocenza.
Se il grigiore ti assedia il cuore, tu ripensa a tutto questo. E sappi che quaggiù c’è il mare che respira e batte su una spiaggia scura. E sempre, qualcuno che ti aspetta.”


Lara solleva gli occhi dall’inchiostro blu che compone le parole. La tazza di thè ha smesso di fumare. Non ne ha più bevuto. I suoi larghi occhi chiari fissano un punto indefinito davanti a lei. Finché le lunghe ciglia calano e così, a occhi chiusi, la mano di Lara sfiora la gola, scende sulla scollatura della vestaglia e si posa a dita aperte sulla lettera, sul ventre.
Un pensiero l’accarezza, le tocca la mente. Tornare a quel cielo terso, azzurro, spazzato dal vento di mare. Ai gorgheggi amorosi delle rane dalle sponde dei fossi, a maggio.Sottrarsi all’ingannevole scintillio delle luci artificiali, alla falsità dei rapporti regolati dal denaro. Respirare di nuovo aria pulita. Lasciarsi amare, avere un figlio. Sì, un figlio. Gli occhi di Lara si aprono e in essi brilla un fuoco antico, primordiale. Si guarda attorno e le sue labbra sorridono, ora, misteriosamente.
Non è l’amore, ma qualcosa di più necessario e selvaggio. Il culto della fertilità, della Terra. Gli albori delle culture umane quando a tutte le latitudini la divinità era femmina – Morrigan per i Celti, Isis per gli Egiziani, Maka per Maya e Atzechi, Ishtar per i Sumeri, fino alla Gea degli antichi Greci - e governava il ciclo della vita e della morte senza saggezza né crudeltà alcuna, ma secondo un ordine cosmico necessario alla continuità del genere umano. Ed era assimilata al serpente ben prima della simbologia genesilogica del Сristianesimo, perché il serpente, lungi dall’essere agente del demonio, per sua natura di rettile strisciante era semplicemente quanto di più prossimo alla terra si potesse concepire.
Lara ascolta i battiti del proprio cuore. Per la prima volta s’insinua in lei l’istinto della procreazione. Poter generare la vita. L’atto supremo, imprescindibile della natura femminile. La facoltà di dare alla luce una testa, un cuore e due gambe nuove, di sconfiggere la morte stessa mediante una nascita, attraverso il perpetrarsi delle generazioni. Di madre in figlio: più forte delle malattie, delle avversità, delle guerre, del fisiologico invecchiamento dell’apparato cellulare umano. Più forte di qualsiasi altra cosa.
Una sensazione che deflagra in Lara, nel suo io più profondo. Incenerendo qualsiasi altra cosa.

Andrea Zarroli