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Gianluca Bartalucci
I primordi dell’essere


L’istituzione era tutta un ribollire di trasformazioni sociali e pedagogiche.
Riflessioni sulle possibilità dell’insegnamento. Sulle metodologie. Su questioni
squisitamente docimologiche. Chiusa già da qualche anno la stagione gentiliana
dell’istruzione di base. Stop ai manifesti all’entrata degli istituti in cui si spiegava
come comportarsi in caso di rinvenimento di ordigno bellico. Fine dell’implicito
controllo sociale effettuato attraverso la scuola. Piomba la media unica. Niente
latino. Obbligo fino ai quattordici anni. Via libera, sostanzialmente, alla
scolarizzazione di massa. Un bambino può parlare mille linguaggi ma gliene
portano via novecentonovantanove – la psicobiologia dice sia verissimo. Nelle
fotografie di classe non si deve sorridere mai. Nemmeno imbarazzarsi delle
orecchie a sventola. I maschi portano capelli folti e inquieti. Le femmine spesse
calze a quadri. Grembiulini di cotone blu (neri nelle foto b/n). Sbilenchi
fiocchetti rossi (grigi). Stufe a legna nelle aule. Processioni di cappottacci ai muri.
Cartelle di cartone. Il sillabario tanto per cominciare. Spartani astucci verde
ghianda. Matite. Molte matite. Ancora pennini e calamaio. Anche se già trovavi in
giro le stilografiche. Le prime biro. Le Bic. La tecnologia galoppa. I banchi col
buco poi sfruttati per trent’anni e passa. Le panche ostiche come nelle chiese. Sulla
cattedra un pallottoliere, il registro e poco altro. Pregare tutte le mattine
puntando il crocifisso. Gesù è morto per noi. Gesù è morto per noi. C’erano
ancora le residuali bacchettate sulle mani, nonostante l’indebolirsi del paradigma
behaviorista. L’ipnopedia non ha comunque alcun valore scientifico. C’era ancora
la paura. Se hai le unghie lerce ti becchi il dolore, sudicione. A sentire alcuni il
condizionamento continuava a trovare una giustificazione. C’entravano Hitler e
Stalin, ma parecchio alla lontana. Starsene un’ora in ginocchio sui ceci secchi.
Prendersi ceffoni per un congiuntivo mancato. Scrivere cento volte sul quaderno,
per punizione, non devo scrivere tutto questo cento volte sul quaderno. Pigro
abbandono della Teoria Ipodermica e del seducente corollario di metafore.
Ciascun individuo, sentite questa, è una specie di isolato atomo soggetto alla
propaganda di insegnanti et similia – la persuasione viene inoculata. Lo studente
è bersaglio. È passivo. Azione e reazione. Nulla, nella black box. Stimolo e risposta.
Stimolo e fottuta risposta – il gelido mantra della TI. Poi ecco il cambiamento, il
ribollire, la novità, la scoperta del cervello pensante. L’abbraccio alla complessità.
Collateralmente, nella dimensione extrascolastica, quella specie di moderno
rinascimento. Dalla polvere rurale a quella di città. Dal sud al nord.
Collateralmente, il boom. Le Vespe e le 500. Le festicciole rionali sudate di vino.
L’apparizione della carne nei piatti. L’acqua perfino tiepida nei tubi. Ecco il Paese
che sognavamo. L’incremento demografico. Le lavatrici e i frigoriferi. I sorpassi a
cento all’ora. Gli emancipati e iperbolici cappelli a scimmiottare Marilyn. Ma i
disgraziati c’erano ancora, eccome, se stornavi un attimo lo sguardo dalla retorica
del Miracolo li trovavi dappertutto. Gli alcolizzati ciondolanti per le vie. Le
accumulatrici di gatti i cui grossi seni mosci penzolavano dai balconi. I morti di
fame dalle mani nero bottino assopiti sulle panchine. I padri avevano visi
brunastri e intascavano qualche lira in più se e solo se accettavano di lavorare nei
reparti più velenosi. Col tempo avrebbero cresciuto variegate forme neoplastiche e
sarebbero diventati impotenti e cornuti. O proprio crepati verso i cinquanta.
Quarantamila al mese, nel Comprensorio del Cuoio. I poveri non telefonavano
quasi mai. Né telefono né televisione. Per loro, anni dopo, la Luna sarebbe
comparsa solo nei bar. E sempre nei bar avrebbero di lì a poco fatto saltare le
cervella a quel Kennedy (che vita è se non bevi un bel caffè?). Ma l’istituzione era
un ribollire, questo si stava dicendo. Il profumo del cambiamento lo poteva
annusare chiunque. Si cominciava ad azzardarlo, che nella scatola ci fosse
qualcosa. Il soggetto ricevente è chi l’avrebbe mai detto attivo. Ora ha credenze.
Ha desideri. Prova meraviglia – l’apprendimento tramite scoperta teorizzato da
Bruner. Ha certe interessanti capacità cognitive. Il quaderno or è finito; se, in
letizia, t’è servito la scrittura a migliorare, tienlo tra le cose più care. Arriva la tanto
sospirata soppressione della vacuità calligrafica – la Bella Scrittura è in fin dei conti
orrenda. Obiettivo primario universalmente perseguito: accendere gli incendi,
mutare specchi in finestre, animare le piccole anime eccetera. Apprendimento
meccanico rimpiazzato da apprendimento significativo. La resa del moralismo
apocalittico e il trionfo dell’ottimismo integrato – così suona davvero alla grande.
Nuove metodiche scolastiche, per carità, ancora insufficientemente
puerocentriche, ciononostante in mezzo ai balbettii del mutamento
paradigmatico il bambino aveva saputo ritagliarsi i suoi spazi. Rincorrere quei
suoi primi interessi. San Miniato, troppi anni fa, un po’ di nebbia giù in valle.
Mattinate fragranti di gesso e legna ardente. La maestra passava ore e ore a
raccontar loro le cose e pretendeva che ci riflettessero su e che poi le ripetessero in
classe. Lui aveva una memoria speciale e non gli costava nessuna fatica. Un solo
problema: ogni volta che apriva bocca si sentiva addosso gli occhi del mondo
intero e desiderava sparire. Un solo piccolissimo problema. La signora Fiorenza,
nata a Empoli l’anno della marcia su Roma, sempre in nero per il marito perso in
guerra, pensava che nella scatola ci fosse roba. Ci contava. E ogni tanto chiedeva
opinioni, stimolava l’esplicitarsi del pensiero, il dentro che balza fuori, la
comunione delle idee. Lui giocava. Alle elementari era ancora un gioco. Anche se
la maestra supponeva che ci si mettesse d’impegno, che ci perdesse delle ore. La
cartina dell’Italia densa di scritte appesa accanto alla lavagna (ecco il nostro motto:
chi risparmia vive felice!). Qualche metro più in là, la tavola sillabica e uno
sgualcito regolamento d’istituto. (Il gelato al bar su in piazza del Popolo il sabato
pomeriggio al ritorno dai giardini. La stracciatella migliore della Toscana –
enfatizzavano). Religione, storia, educazione civile, geografia, scienze, matematica
e grammatica. Imparare a fare le aste, milioni di aste sul quaderno che sarebbero
pian piano evolute in più o meno storpie lettere. Imparare l’alfabeto. Imparare la
struttura interna delle parole prima di tutti, una gara a cui non sapeva di
partecipare. Imparare in scioltezza un sacco di parole più degli altri. Che poi a
volte s’impegnava di brutto. Come per esempio quel giorno in terza elementare
che passò l’intero pomeriggio a scrivere di – che gli era preso – cetacei. La maestra
aveva chiesto solo un paio di pagine su un argomento a piacere (primi impacciati
passi pedocentrici), lui strafece e andò sulla decina. Perché gli piaceva. Perché così
il tempo passava meglio. Le immagini suggestive sul volume dell’enciclopedia
Fabbri, che si vendeva porta a porta e che sulla copertina sfoggiava astronauti,
pappagalli, aggeggi lenticolari, avveniristici aerei e, centrale e netta, una
rotondissima Terra. Le ingiallite pagine del Grande Libro della Natura, pescato da
qualche parte in soffitta – carta ruvida e muffosa, foto pressappoco scure,
illustrazioni iperpigmentate. Polmoni subacquei, quelli erano. Immani bestie a
stanziare nel medesimo mare in cui faceva i suoi spensierati bagni estivi, anche a
Marina di Pisa, anche a Cecina. Collegamenti. Pinocchio, Geppetto, la Grossa
Balena Bianca di quella storiella di paura. Scoprire che cetaceo significa mostro
marino – i delfini erano un’eccezione, i delfini erano magnifici. Il mio babbo si
chiama Beppe e non è grasso ma neanche secco: è normale. Il mio babbo è molto
forte e lavora in concia a Santa Croce tutto il giorno e quando torna a casa la sera è
stanco e puzzolente. Ha sempre una gran fame. Il mio babbo parla poco. Quando
non ho appetito mi dice che quando c’era la guerra lui ha mangiato i pezzi di
salame sudici che trovava in terra e che erano pieni di formiche. Quando lo dice mi
immagino le formiche che si muovono nella sua pancia ma non glielo dico. A volte
la domenica io e il mio babbo andiamo al cimitero a portare i fori ai miei nonni.
Quasi sempre lui ci va da solo. Io so che i miei nonni sono nati a Venezia e sono
venuti a stare in Toscana tanto tanto tempo fa e hanno lasciato la casa al mio
babbo. Il mio babbo non ha mai conosciuto il suo babbo e la sua mamma. Sono
morti quando lui aveva due anni. A volte penso che il mio babbo è triste per
questo. Neanche io li ho mai conosciuti, anche se mi sarebbe piaciuto tanto! La
signora Fiorenza diceva che i riassunti erano lodevoli. Nei dettati commetteva
meno errori degli altri. A matematica non aveva alcun tipo di problema – filava
tutto liscio con moltiplicazione, divisione, sottrazione, addizione, tabelline
eccetera. Agli esami di quinta, nell’anno de Il laureato e di Are you experienced,
tutte le insegnanti della scuola si radunarono per ascoltarne l’orale, evento speciale
e lungamente atteso. Dovevate proprio sentire. Ragazzi. Aveva un lessico così
sconfinato. Era così inconcepibilmente brillante. Il sussidiario di terza si chiamava
Amicizie. Quello di quarta Genti e Paesi. In quinta c’era Piccolo Mondo. Su una
copertina scarabocchiata campeggiava la faccia di un bimbo che abbracciava un
cane. Quell’altra volta che scrisse un pensierino sulla domenica pomeriggio a
Firenze con i suoi, di un gelato enorme e di palazzi giganteschi e precisi e del babbo
davvero allegro, e la maestra all’intervallo che lo prese da parte, l’alito fresco
d’arancia, e gli disse che era davvero una cosa bella e che era stato bravo, bravo,
bravo sul serio. Le attenzioni che non voleva. I primi commenti corrosivi dei
compagni, che lo trattavano come se fosse un bambino differente. Ruffiano.
Sapientone. Saputello. Cocco della maestra. Inteligentone (sic). Il gioco che già
prende la brutta piega. Il rifiuto. Il volersene stare per conto proprio. Il lento
avvilupparsi di cause esogene ed endogene. Una notte mi sono svegliato e ho avuto
paura che accanto al muro ci fosse un orso che voleva mangiarmi. Dopo l’orso è
scomparso ed è venuta una strega con i capelli di fl di ferro che voleva farmi sparire
con la magia. Dopo è arrivato un marziano con una navicella mostruosa. Tremavo
parecchio. Ma poi ho pensato: prima ho letto le fabe con gli orsi, con i marziani e
con le streghe! Ecco perché! E mi rimisi a dormire. Leggeva Il Corriere dei Piccoli e
i Disney, quando poteva i Tex e i Mandrake. La parola fumetti andava scritta tra
virgolette perché non era Buon Italiano. Leggeva di tutto. Terminò Gian
Burrasca per tre o quattro volte di fila, sgranocchiando sul letto dei dolciumi alla
menta ricevuti per Natale, in un piovoso inverno di metà anni Sessanta. Pescava
titoli allettanti dalla biblioteca nel convento della chiesa di San Domenico.
Seguiva le dritte della signorina Virginia, che lavorava là ed era sempre contenta di
vederlo. Riecco il suo piccolo lettore. Riecco il bimbo curioso. Storie fantastiche e
avventurose. Salgari, divorato durante un memorabile morbillo, Twain, Wells,
Verne. Avere una mamma è proprio una bella cosa! La mia mamma Elisabetta è
la migliore di tutte. Mi piacerebbe dirglielo, ma non ci riesco mai! Qualunque
sforzo è inutile. La sera sto nel mio letto e ci penso. D’improvviso la porta si apre e
la mamma viene a vedere se dormo. Io chiudo gli occhi in fretta e allora lei mi dà
un bacio e io penso che forse lo sa come le voglio bene. Si era impegnato tanto anche
quell’altra volta, poi, di cui da adulto non avrebbe più ricordato nulla, quando la
maestra aveva assegnato il compito di inventare una storia di sana pianta e lui
aveva partorito diverse paginate di racconto in cui il protagonista-bambino,
sfuggito ai genitori malvagi, il padre due manacce impietose e la madre un’orribile
voce stridula, s’imbarcava come clandestino su una nave e visitava posti da sogno e
viveva mirabolanti avventure per il resto della vita. Castelli, principesse, draghi,
incantesimi, fiumi di latte zuccherato. Talmente ben fatto che per la prima volta in
assoluto la maestra, supponendo di gratificarlo, lo invitò alla cattedra per leggerlo.
Lui pensava, informemente, che non fosse la cosa migliore da fare. Ma come
spiegarsi. Come modificare il corso degli eventi. Arrivò blandamente alla cattedra,
aprì il quaderno e alzò un attimo lo sguardo. Davanti a sé si stendeva un nugolo di
piccole teste e occhi accusatori. Qualcuno, là in fondo, sogghignava ferino.
Qualcuno già immaginava il dopo, il domani, le ovvie conseguenze. Scoprì che le
sue ascelle sapevano inumidirsi a sorpresa. Scoprì che il cuore poteva lanciarsi in
violente accelerate e che la vista poteva farsi nebulosa e inaffidabile. Scoprì il
tremore destabilizzante degli arti inferiori. Aleggiava un silenzio che voleva e non
voleva lasciarsi alle spalle. Una matita cadde sul pavimento da qualche parte a
sinistra. Uno schiarirsi di gola sul fondo. Poi nulla. Poi era lì e non poteva sparire.
Poi toccava a lui. Stava per partire. Stava per articolare la prima parola, stava per
ascoltare la sua stessa voce riverberare strana sui muri in parte stonacati di
quell’aula samminiatese. Il bambino era precoce, lo dicevano tutti. Il bambino era
intuitivo. Il bambino era dotato e cominciava ad arrivarci anche da solo, credeteci,
senza bisogno di conoscere le idee mirabolanti e contraddittorie di tutti quei
cervelloni: nella scatola c’era davvero un gran mucchio di roba.

I temi di quegli anni avevano titoli come: Devo assolutamente confessare
questa cosa, Una merenda con gli amici, La fine dell’anno scolastico: il mio
pensiero al riguardo, Descrivi la Toscana, Cos’è per te la primavera?, Cos’è per te
l’anima?, La paura è fatta di nulla, Descrivi un animale immaginario, I posti che
vorrei tanto conoscere, Cosa faresti se tu fossi il re del mondo, La visita
dell’Ispettore, Quanto è utile risparmiare, Perché non si deve bestemmiare.

Gianluca Bartalucci