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Maria Angela Bedini
Dell'acqua e della luce
Viaggio segreto in terra toscana


CANTO I

Firenze, creatura d’Arno

Firenze è una polvere azzurra
sopra il groviglio dell’Arno,
il fiume che s’intana tra i versanti delle chiese,
bacia il macigno dei palazzi,
striscia sotto le spire dei ponti,
s’insinua nell’alone fulvo dei portoni,
una segreta linea d’ombra che ricorda il mare.
Arno dio fiume,
spirito guerriero dell’acqua e della luce,
che fa di Firenze la sua creatura angelica,
la ninfa palustre, il nume della natura fluida,
l’equorea sostanza di una città ferma e tangibile,
che nella vena ondosa d’Arno
custodisce il suo esodo,
il suo esiliato mare.
Vedo Firenze galleggiare
sopra il corpo del fiume
in rapide serpentine,
portando sulla schiena il suo dono di palazzi,
corridoi, cantoni, campanili,
le guglie e le absidi portate
in volo dal fiato effimero del vento,
dalla voce antica dell’aria
che rimescola i suoi riflessi sulla terra.
E la città è quel tratto di valle
dai profili disegnati che il dio fiume
anela e accarezza nel suo passaggio
lungo le mura e i giardini
fino a perdersi in una lontananza liquida.
Dalle rive di quell’acqua ansante
e vorticosa Firenze fluisce
e serenamente scorre nella pianura,
deposita il suo arenile di architetture,
rintraccia oscure radici sepolte nel guado,
richiama la dura essenza della terra toscana
convogliata nel terrapieno delle sue volte maestose,
raduna il soffio di una bellezza millenaria,
solleva un’anima fatta chiara
dall’infittirsi del mistero.
Forse Firenze cattura il groviglio
di un’agonia, il sangue che scorre
impetuoso nelle vene d’Arno,
esaspera il perimetro della ferita,
distilla una luce fonda e radiosa
che fa tremare il corpo della pietra
e muove dalle caverne i fiori
di un’eternità paziente e solitaria.
Firenze che fiorisce
nella gemmatura dei suoi nomi,
nel talento di un amore terrestre,
il sottile mare incantato dell’Arno,
la felicità della terra.
Santa Maria del Fiore, Santa Croce,
Santa Maria Novella, le dorate porte
del paradiso e del sogno, il mondo
che si dona nella levità di angeli
possenti e benigni.
E nella solennità dei palazzi nobiliari,
gli avi rimescolano armi e innamoramenti
sul bugnato di pietraforte, con la grazia
delle lesene e delle bifore,
con la civile eleganza di un rinascimento
sobrio e vittorioso.
Firenze alberga qui, nella visione
allucinata e pura di un prodigio,
nell’incanto di una contemplazione mentale,
nel genio della luce e dell’acqua, che vibra e increspa
l’incarnato delle pietre e le dissolve
dentro lo specchio della sua ossatura.
La torre, la cupola,
l’araldica degli stemmi signorili
sono segni, tracce visibili,
apparizioni di una gioventù inestinguibile,
mentre la luce dilaga e ingentilisce le cavità,
annega gli spigoli
nel folgorio dello spirito.

CANTO II

tra i cipressi e gli ulivi in fondo alla vallata

Pienza dai voli intrecciati sui tetti vescovili
a un passo dai loggiati dove Enea Silvo galoppa sopra i secoli
con i versi della gioventù dorata, con il mantello purpureo
e la spada che spacca i dossi e fa germogliare una corolla maestosa
tu vedi il cortile sospeso sui contrafforti del mondo
e un ragazzo che corre nell’orbita dei pianeti
tra i palazzi, la piazza e l’abside rotolata tra i cipressi
e gli olivi in fondo alla vallata
e i millenni si radunano nell’avventura di un giorno
nel gorgo di questa luce che inchioda ai muri un alloro,
un battito, un rosario di paesi, una corona di destini

CANTO III

in un cammino di segreti timori

Poi la bellezza allagava le nostre pupille
in un cammino di segreti timori
Siena infiammata dal crepuscolo
onda sapiente di un mare di terre
vergine misericordiosa madonna adolescente
che fai del selciato il tuo miracoloso mantello,
valva di madreperla sirena dai flutti misteriosi
tuo l’abbraccio che chiude a cerchio i confini del campo
e pietra, torre, palazzi, trifore sono il dono paziente
delle figure, lo stelo di marmo, le merlature
il mormorio delle radici che vibra in ogni respiro
poi nel crinale della terra tra le pieghe smagrite della campagna
che si concede al borgo nel cuore della piazza scampata alla palude
senti un vento di rintocchi, di passi tramortiti
un fluire dell’acqua e delle voci
che apre le contrade al fiato selvaggio della Maremma
al lampo di preghiera di San Bernardino
eravamo nelle città di lavanda e rosa canina
dalle superfici levigate dove i colori cantano in armonia
e ogni passo muove una danza nelle strade colme di botteghe
nelle pieghe dei rioni tra il frastuono dei passanti
dentro gli odori primaverili dell’anno
nella luce buona del giorno, nella grazia delle dame
tra le nubi viola del temporale e lo scoppio delle macerie
tra le tenebre di una guerra interiore,
nelle minacce dei bracconieri
tra i pugnali dei sicari e l’orrore dei delitti
siamo stati dentro un affresco rapiti dall’euforia del viaggio
nel profilo canoro dei colli, a ridosso del mare
tra gli stormi e le sagome degli arbusti
il Giglio, Camaiore, Pietrasanta
il benvenuto della marina
nel saluto turchino del Tirreno
Pistoia, Lucca, Volterra, il Casentino e la Val d’Orcia
tra le giubbe dei mercanti e le tuniche trasparenti degli angeli
nel coro dei cortei e nelle veglie insonni
aggirando paesi cresciuti sopra la cima dei monti

CANTO IV

apparteniamo ad ogni transito della specie

Siamo stati in questa terra dal suono di cembalo
tra le soglie sospese oltre la nebbia
catturati dal groviglio sonoro delle stagioni
apparteniamo ad ogni transito della specie, ad ogni polvere
Pisa appariva come il bagliore di una visione
siamo stati pianura e deserto
acqua piovana selva e dosso
la pietra fiorisce come un biancospino sui rami
siamo stati estasiato silenzio
la cupola è un candido frutto sopra il cobalto del cielo
sono limpide ossa sul verde naufragio dell’erba
camminiamo sul fuoco del miracolo chiuso dentro un recinto
come parole prigioniere del sontuoso alfabeto
dentro la città scorre nelle vene del suo tormento
nella piazza soltaria brilla la pace delle cose compiute
il vaporoso balzo che ha raggiunto la meta
Jerosolima caduta dentro il prato
arca e mongolfiera

CANTO V

come una fossa dentro il fango

A Incisa l’Arno ha un respiro più profondo
scavalca il fianco dei suoi argini illividiti
scava una fossa dentro il fango
ha memoria della radura e dei cunicoli
si accende nella selva dei pellegrini
grida a tratti
pulsa come il sangue

Maria Angela Bedini